lunedì 1 novembre 2010

La storia di Bacco e Arianna


Bacco e Arianna sono spesso raffigurati insieme innamorati ed ebbri.
Il Bacco (o Libero) dei romani, corrisponde al dio greco Dionisio, divinità il cui simbolo, oltre al viticcio e all'edera rampicante, era costituito dal tirso, un bastone nodoso sormontato da un viluppo d'edera.

L'aspetto di Bacco/Dionisio era quello di un giovane bellissimo, con il capo riccioluto e incoronato da pampini e da viticci.

Arianna era la figlia del re di Creta, Minosse, il quale aveva imprigionato il Minotauro, mostro mezzo uomo e mezzo toro, in un labirinto costruito da Dedalo, da cui era impossibile uscire.
Ogni anno sette fanciulle ateniesi venivano date in pasto al mostro, finché Teseo, figlio del re di Atene, si nascose fra le fanciulle da sacrificare col proposito di uccidere il mostro.

Arianna e Teseo si innamorarono e quando fu il turno di Teseo di entrare nel labirinto, questi dipanò lungo la strada un rocchetto d filo, fornitogli da Arianna, su suggerimento di Dedalo (il famoso filo di Arianna).

Teseo uccise il Minotauro e, riavvolgendo il filo, riuscì ad uscire dal labirinto.

Teseo ed Arianna fuggirono insieme da Creta e si fermarono sull'isola di Nasso dove però Teseo confessò ad Arianna che aveva solo finto di amarla, per avere il suo aiuto per uccidere il mostro.
Arianna, rimasta sola, iniziò a piangere confidando il suo dolore a delle giovani Ninfe che per distrarla le raccontarono di una nave appena approdata con un dio a bordo.

Il dio era Dionisio, Bacco per i romani, figlio di Giove e di una femmina mortale, allevato dalle Ninfee che lo nutrirono con miele. Bacco aveva una vita vagabonda e piena di avventure. Quando arrivò sulla stessa spiaggia dove era stata abbandonata Arianna, Bacco era appena sfuggito alla Maga Circe e prese la fanciulla per un'altra maga.

Conquistato dalla bellezza di Arianna il dio si innamorò di lei e le donò una meravigliosa corona d'oro, opera di Efesto. Questa corona verrà trasformata dal dio in una costellazione splendente alla sua morte.
Trasportata sull'Olimpo Arianna e Bacco si sposarono.

Questo mito tornò in auge nel Rinascimento, il Trionfo di Bacco e Arianna divenne il tema di quadri e affreschi, nonché di rappresentazioni e poesie, come quella di Lorenzo il Magnifico che nella sua "Canzona di Bacco" declama:

Quant'è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c'è certezza.
Quest'è Bacco ed Arianna,
belli, e l'un dell'altro ardenti:
perché ’l tempo fugge e inganna,
sempre insieme stan contenti.

giovedì 24 giugno 2010

Il Mito di Narciso


Come ben sapete il mito di Narciso racconta di un giovane di bellissimo aspetto, che, specchiandosi in una fonte, s'innamora follemente della sua immagine, tanto da morire di dolore nel momento in cui si accorge che non potrà mai possederla ( Metamorfosi, Ovidio).
Una delle tante chiavi di lettura del mito è il "rischio del fallimento". Un fallimento genera nell'individuo un sentimento di dolore, che istintivamente egli debella rifiutando di correre questo rischio: c'è il rifiuto della sofferenza, che esclude a priori la possibilità di avere un successo, per non rischiare il fallimento. Narciso rifiuta il dolore del fallimento per non tradire se stesso (il tradimento per Narciso è la separazione dalla propria immagine!) e rifiuta un confronto con gli altri volti, e quindi con gli altri, che hanno la capacità di mettere in discussione l'Io che si mette in relazione, distogliendolo dall'amore per sé e focalizzando la sua affettività verso l'altro. In Narciso non esiste alcun transito che porti al confronto, nonostante la presenza della fonte che propone un possibile altro, perchè esso rifiuta di tradirsi, ed è privo di quella che chiamiamo fiducia primitiva. Il dramma di Narciso è il dramma di chi non ha mai imparato a tradirsi, perchè troppo precocemente tradito e "costretto" a rafforzare il proprio guscio "narcisistico", per evitare ulteriori tradimenti e altro dolore.
L'essere Io, l'essere soggetto per Narciso non costituisce affatto vulnerabilità, in quanto lui è una soggettività beata, autonoma e non bisognosa di altro; è simbolo di una soggettività non relazionata, perchè presuntuosa d'invulnerabilità. Al contrario per Narciso l'amore diviene sinonimo di debolezza e vulnerabilità, perchè porta ad esporsi e scoprirsi, ad essere non solo soggetto ma anche oggetto. Nella formula " Io è un altro " il poeta simbolista A. Rimbaud sembra suggerirci che l'unico modo per essere un Io, per costituirsi come soggetto sia essere in relazione con l'altro. L'esporsi, aprendosi all'altro, il darsi in balia di questi può essere motivo di dolore e Narciso rifiuta questa possibilità, anche a rischio di non formarsi come soggetto. L'immagine riflessa nella fonte viene a simboleggiare il rapporto interpersonale al quale egli si sottrae nel momento in cui non riconosce l'altro, e quindi, poichè l'altro è la sua immagine riflessa, il rifiuto di Narciso diventa anche attestazione di un disamore con sé: Narciso è incapace di tradire la propria immagine nella stessa misura in cui è incapace di separarsene.
Caravaggio, Narciso.

Il Mito di Narciso


Narciso, Dalì

mercoledì 2 giugno 2010

The Essence of Decadence



Riproporre, con uno scatto, il tedio e la malinconia evocata dai pittori della fin de siècle. La sfida di due giovani creativi veneziani,Tania Brassesco e Lazlo Passi Norberto, che riproducono con la fotografia quadri di sapore decadentista, allestendo con cura il set fotografico nel salotto di casa.
Hanno cercato i broccati più simili, i colori più fedeli, le stoffe più adatte. E non sempre per cucire abiti della fin de siècle, ma anche per riprodurre la carta da parati dipinta da Klimt in "Music 1".
Per posare accanto a un vaso identico a quello di Herbert James Draper nel suo "Pot Pourri", invece, hanno scolpito la cartapesta e dato fiducia ai pennelli. Lo studio fotografico? Il salotto di casa. Tania Brassesco e Lazlo Passi Norberto sono gli unici due autori di "The Essence of Decadence": diciotto remake fotografici di capolavori pittorici della fin de siècle. Tania si è immedesimata nelle modelle di Schiele per entrare, subito dopo, nel mistero amaro delle donne di Klimt. Lazlo l'ha fotografata fra lenzuola, sedie, letti, tavole e cuscini.
Dietro a ogni immagine ci sono pazienti ricerche: dagli studi sulla luce dei dipinti da riprodurre nella fotografia a quelli sui tessuti, le acconciature, le espressioni delle donne dipinte dai Decadentisti.

domenica 9 maggio 2010

Giacomo Favretto



La bibliografia di Giacomo Favretto è piuttosto scarsa e se da un lato è sufficiente ad inquadrare l’artista e la funzione della sua opera, dall’altro è scarna ed imprecisa su quanto riguarda la vita.
Figlio di Domenico Favretto, modesto falegname, e di Angela Brunello, il pittore nacque a Venezia l’11 agosto 1849.
I primi insegnamenti gli furono impartiti dal conte Antonio de’Zanetti, e dallo zio di questi, il pittore Gerolamo Astolfoni.
Purtroppo la miseria in casa Favretto era grande, e s’imponeva la necessità che anche il ragazzo si guadagnasse il pane. Fu quindi fatto entrare come garzone in una bottega di cartolaio. Lì, nelle ore di quiete si dilettava a delle figurine di persone e di animali che con la matita disegnava, o con innata abilità coglieva i profili dei clienti che frequentavano la cartoleria.
Questi schizzi un giorno furono notati da un certo Vincenzo Favenza, antiquario, che li ammirò tanto da insistere col padre del giovane ed ottenere che gli assicurassero un’educazione artistica.
Fatto un esperimento presso lo studio del pittore Antonio Vason, dove apprese le prime nozioni di pittura, Favretto entrò quindi all’Accademia di Belle Arti.
Entrato nel novembre del 1864, continuerà a frequentare l’Accademia fino al1877/’78, anche dopo la conclusione degli studi nel 1870.
Intanto la fama della sua genialità cominciava ad uscire dalla piccola e chiusa Venezia.
Scrive Boito (, 1874): “Nei veneti ci sono due novellini eccellenti, Giacomo Favretto e Luigi Nono…”.
Gli anni a seguire sono tutti di sviluppo per la fama dell’artista, anche se la sua gracilità fisica lo condizionò non poco.
Dai primi quadri fu un continuo progredire, mer
Durante tutti i suoi anni di studio, Favretto si distinse sempre onorevolmente, come dimostrano i premi conseguiti nell’anno accademico 1869/1870.
Nasce a Venezia il “Verismo”, che vedrà in Favretto il maggiore artefice, l’iniziatore, e che probabilmente con la sua morte, nel 1887, in un certo senso chiuderà questo capitolo della pittura veneziana.
Nel 1873 un nuovo capolavoro, La lezione di anatomia, in cui viene risolto attraverso rapporti cromatici e di prospettiva del tutto nuovi.itandosi parecchi primi premi ed i suoi dipinti erano richiesti da privati e commercianti, anche stranieri.
Con “La finta ammalata”, tratta da una commedia di Goldoni, si apre un nuovo capitolo nella sua pittura e, se il soggetto sarà spesso motivo di polemica, non dobbiamo mai dimenticare la qualità pittorica dell’opera, resa da Favretto in maniera coloristica del tutto singolare e personale.
Poiché possedeva una notevole memoria visiva, svolgeva il proprio lavoro senza necessità di alcun modello, dipingendo tutto a memoria.
Nonostante la gloria e la ricchezza non avevano intaccato minimamente il suo spirito ed egli rimase mite e modesto come sempre. Nel 1884 inviava all’Esposizione di Torino cinque quadri, che ottennero un lusinghiero successo di critica e pubblico. Sempre in questo periodo dipingeva quadri famosi come El liston, prezioso studio compositivo ispirato al costume settecentesco, Dopo il bagno, La zanze, La Nina, Susanna e i vecchioni, El me dise rossa mia, Caldo, tanto per citare i più significativi.
La sua breve carriera terminò durante l’Esposizione di Venezia del 1887, che fu per lui un vero trionfo.
Non scampò alla febbre tifoide e morì il 12 giugno 1887.
Termina così con Favretto, un capitolo glorioso della pittura veneziana dell’Ottocento.

domenica 28 marzo 2010

Venere: tra arte e mitologia.


Una donzella non con uman volto
Da' zefiri lascivi spinta a proda
Gir sopra un nicchio; e par che 'l ciel ne goda.
Vera la schiuma e vero il mar diresti,
E vero il nicchio e ver soffiar di venti:
La dea negli occhi folgorar vedresti,
E 'l ciel ridergli a torno e gli elementi:
L'Ore premer l'arena in bianche vesti,
L'aura incresparle e’ crin distesi e lenti:
Non una, non diversa esser lor faccia,
Come par che a sorelle ben confaccia.
Giurar potresti che dell'onde uscisse
La dea premendo con la destra il crino,
Con l'altra il dolce pomo ricoprisse;
E, stampata dal piè sacro e divino,
D'erbe e di fior la rena sì vestisse;
Poi con sembiante lieto e peregrino
Dalle tre ninfe in grembo fusse accolta,
E di stellato vestimento involta.

- Poliziano, Stanze -

Venere trae il nome dalla dea romana dell'amore e della pace. Per i greci era Afrodite, per gli egiziani Iside e per i fenici Astarte. Venere era associata al rame (metallo di cui è ricca Cipro, isola natale di Afrodite) e veniva raffigurata a volte come un triangolo piatto, a volte con il numero cinque ed altre con il colore blu. Veniva inoltre identificata con il giorno di Venerdì: i Sassoni usavano il nome della loro dea della fertilità, Fria, che si trasformò poi nel nome inglese di Friday (Venerdì), mentre il nome francese Vendredi indica la sua chiara origine greco-latina.

Secondo la mitologia, Venere/Afrodite era figlia di Cielo e Mare, ovvero di Urano e Gaia; ma viene anche riconosciuta come una delle figlie di Zeus, o anche come figlia della schiuma del mare.

Esistono due versioni della nascita di Venere: nella prima (narrata da Esiodo nella sua Teogonia), la dea era nata prima delle altre divinità dell'Olimpo. Quando il titano Crono recise i genitali del padre di Venere (Urano) e li gettò in fondo al mare, il sangue ed il seme in essi contenuti si addensarono in forma di schiuma e da questa emerse Afrodite (da cui l'origine del suo nome: la parola aphros significa schiuma), , che fu sospinta dagli Zefiri fino all'isola di Cipro; secondo altre fonti, approdò prima a Citera o a Pafo. Sulla riva, comunque, fu accolta dalle Ore (le Stagioni) che la vestirono, la agghindarono e la condussero presso gli immortali. Dunque, Afrodite non aveva avuto né infanzia, né fanciullezza: era venuta al mondo come una donna giovane e completamente formata (vedasi anche la "Venere in Conchiglia").

Nella rappresentazione di Botticelli, Venere, nata dalle onde, è in piedi su una conchiglia (simbolo di fertilità) e viene sospinta dagli dei del vento verso la riva, dove Flora, dea dei fiori, l'attende per avvolgerla in un rosso mantello. Le chiome fluttuanti e le vesti ondeggianti conferiscono al dipinto una vorticosa leggerezza.
In origine, Venere era la dea dei giardini e degli orti e solo in seguito venne identificata con Afrodite, dea dell'amore e della bellezza.
La seconda versione della leggenda della nascita di Venere, nota come "Versione dei Cherubini" è narrata da Omero nell'Iliade. Secondo Omero, Venere era figlia di Zeus e della ninfa degli oceani, Dione. Andò poi in sposa ad Efesto (Vulcano) e diede alla luce dei figli. Tuttavia, trascurava i propri doveri domestici e coniugali poiché dedicava molto tempo ai propri amori con altri dei e uomini mortali. Tra i numerosi amanti, le sono attribuiti Ares (dio della Guerra), la relazione con il quale è la più nota e la più duratura, e con l'avvenente Adone. Era inoltre la madre di Eros (Cupido), Deimos (Terrore) Phobos (Paura) ed Armonia, la moglie di Cadmo. Uno dei suoi figli mortali era Enea, avuto dal suo amante Anchise, Re di Dardania. Anchise venne reso storpio da una saetta di Zeus quando rivelò a questi di aver amato la dea.

Platone immaginò l'esistenza di due Veneri: una nata da Urano, il cielo, e detta perciò Venere Urania, dea dell'amore puro; l'altra nata da Dione e detta Venere Pandemia, cioè popolare, dea dell'amore volgare.
Secondo la tradizione, Venere aveva come ancelle le Grazie o Cariti; suoi animali preferiti erano le colombe (che trascinavano il suo carro), i cigni, le lepri, i serpenti, le tartarughe, i delfini, le conchiglie marine. In quanto protettrice dei giardini le erano consacrati il mirto, la rosa, il melo cotogno e il papavero. Altri suoi attributi convenzionali erano la cintola magica (che rende seducente chi la indossa), la torcia che desta amore, il cuore fiammeggiante, lo specchio.

Vastissima la sua sfera di potenza; tra i tanti titoli che le erano attribuiti c’erano quelli di Pandemia (amore terreno), Urania, Anselmia, Scodia. Inoltre, per le sue origini dal mare, proteggeva i marinai e i naviganti che la imploravano con gli epiteti di Euclodia e Pompia, riferiti entrambi alla navigazione marittima.

Personificazione eterna dell'amore, il mito di Venere è raffigurato in un'ampia varietà di immagini e pose, a volte come simbolo di purezza, altre come espressione di una sensualità conturbante. Dal punto di vista iconografico Venere può essere rappresentata come sorgente dalle acque, mentre giunge alla riva di Cipro; oppure giacente o dormiente; infine in trionfo, oppure associata ad altri soggetti mitologici.

Dal Rinascimento in poi, questa ddivinità è stata la figura mitologica femminile più rappresentata nella storia dell'arte occidentale. Il suo ruolo di dea dell'amore giustificò il fatto che venisse dipinta senza veli e il suo nome era talvolta solo un pretesto per poter commissionare un nudo femminile.

Per i neoplatonici fiorentini del Quattrocento – come, per esempio, Lorenzo di Pier Francesco de' Medici, mecenate di Botticelli - c'erano due Veneri, immagini rispettivamente della natura spirituale e di quella fisica dell'amore. Secondo tale teoria, formulata per la prima volta da Platone, la Venere celestiale personificava l'amore nato dalla contemplazione del divino, mentre la Venere terrena attendeva di trasformarsi in quella celestiale. Nei dipinti, la prima era raffigurata nuda, come simbolo di purezza, mentre la Venere terrestre era vestita elegantemente e ricoperta di gioielli.
Venere/Afrodite fu la causa indiretta della Guerra di Troia, che iniziò con una contesa il cui oggetto era la proclamazione della dea più bella dell'Olimpo. Nell'opera di Omero non vi è alcun cenno a questa origine per la guerra di Troia, ma ne parla Euripide nelle Troiane.

Zeus era persuaso che la terra fosse sovrappopolata, quindi convinse Eris a partecipare alle nozze di Peleo con la nereide Teti, che lasciò rotolare tra i convitati una mela d'oro (il pomo della discordia), con la scritta «Alla più bella».

Nacque subito una disputa tra Era, Atena ed Afrodite. Le tre dee chiesero allora aiuto a Zeus, il quale si rifiutò di esprimere un parere, ma decise di rimettere il giudizio ad una persona imparziale. La scelta cadde sul pastore, Paride, che si trovava sul monte Ida. Qui Ermes, preso il pomo della discordia, condusse le tre dee. Ma a Paride venne chiesto di decidere non in base alla bellezza, ma in base al miglior dono che ciascuna gli avrebbe offerto. Giunone gli offrì di diventare il dominatore di Europa e di Asia, Atena gli promise che avrebbe condotto i Troiani alla vittoria sui Greci e Afrodite gli offrì in sposa la donna più bella del mondo (Elena). Paride consegnò così ad Afrodite il pomo della discordia e la dea lo condusse da Elena di Troia, moglie di Menelao, aiutandolo a rapirla: fu questa la causa della guerra di Troia. Con la sua scelta, Paride si inimicò anche Atena ed Era, che si schierarono con gli achei.
Dalla Grecia, il mito di Afrodite penetrò nella cultura ellenistico-romana cambiando il nome in Venere (Venus). La Venere dei romani era in origine una divinità essenzialmente agreste, protettrice dei campi, dei giardini e dei loro coltivatori. Più tardi, divenne dea della bellezza e dell'amore e a lei si doveva la vita e, infatti, i romani la identificavano anche con la primavera, la rinascita della natura. Lucrezio, nell'incipit del De rerum natura, la descrive così:

Alma Venere, genitrice degli Eneidi delizia degli uomini e degli dei, tu che sotto gli astri erranti nel cielo fecondi il mare che porta le navi e la terra carica di messi, per te tutti gli esseri viventi sono concepiti e nascendo vedono la luce del sole; quando tu appari, o dea, fuggono i venti, fuggono le nubi del cielo, sotto i tuoi piedi la terra fertile produce fiori soavi, a te sorride la distesa del mare e il cielo, placato, versa un torrente di luce...

lunedì 22 febbraio 2010

Vittorio Corcos - Le Istitutrici


Nel 1982 Corcos torna un'ennesima volta a Parigi e proprio in questo stesso soggiorno dipinse Le Istitutrici ai Campi Elisi.
L'artista ritrae le due giovani intente a chiacchierare fittamente tra loro, l'una mentre si aggiusta con movimento affrettato un guanto, l'altra di spalle, tutta protesa verso l'amica affinche quei loro discorsi "da grandi" non possano essere ascoltati dalla bimba innocente, che si dedica con impegno a stampare formine con il secchiello e la paletta, per nulla impacciata dalla ampia mantella bordata di pelliccia, dai guanti chiari e dalla grande cuffia che le nasconde completamente il volto.
Un analisi acuta, intrisa di accenti decadentistici, come d'altronde non poteva essere altrimenti durante quel periodo, un analisi sociologica di quelle giovani destinate dal bisogno di crescere figli degli altri sacrificando la propria giovinezza, la propria felicità, maternità e che partecipavano solo di riflesso a quegli agi che non sarebbero stati altrimenti permessi se non , appunto, per uil tramite di una professione "servile" che imponeva loro una rigida etichetta.
In quest'opera così ben confezionata in uno stile che domina la tela e non lascia trasparire il travaglio del pennello, Corcos suscita ipotesi, insinua interrogativi nell'osservatore....
(Con Dedica...volendo contraccambiare la dedica fatta davanti quest'opera...)